Papa Francesco ha approvato la canonizzazione del Beato Bartolo Longo, l’apostolo del Rosario nato a Latiano, fondatore del Santuario di Pompei. La sua vita dedicata alle opere e alla formazione delle persone più deboli, soprattutto dei ragazzi che ebbero un orfanotrofio e un ospizio. In un’analisi di Augusto Conte, avvocato e saggista di Ceglie Messapica, si sottolinea la giustizia e la carità dell’uomo in contrapposizione alla teoria del “delinquente nato”
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Il 25 febbraio Papa Francesco, dal suo letto in ospedale al “Gemelli” di Roma, ha deciso «di convocare un Concistoro che riguarderà le prossime canonizzazioni». Il Pontefice ha approvato i voti favorevoli della Sessione ordinaria dei cardinali e vescovi membri del Dicastero per la canonizzazione del Beato Giuseppe Gregorio Hernández Cisneros, fedele laico, nato a Isnotú (Venezuela) il 26 ottobre 1864 e morto a Caracas (Venezuela) il 29 giugno 1919, e del Beato Bartolo Longo, fedele laico, nato a Latiano il 10 febbraio 1841 e morto a Pompei (Italia) il 5 ottobre 1926. Stabilita, inoltre, la beatificazione di Salvo D’Acquisto, il carabiniere che offrì la sua vita in cambio di 22 innocenti che la rappresaglia nazista aveva condannato a morte.
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di Augusto Conte
Bartolo Longo, nato a Latiano (Brindisi), l’11 febbraio 1841 dal medico Bartolomeo Longo e da Antonia Luparelli, beatificato da Papa Giovanni Paolo II, è soprattutto noto negli ambiti religiosi per la fondazione nel 1876 del Santuario di Pompei nel quale portò il quadro della Madonna del Rosario, dipinto su tela regalatogli da Suor Maria Concetta de Litala; la venerazione del popolo delle campagne, nel quale aveva avviato opera di catechesi e la diffusione del Rosario, si propagò tra la popolazione che parlava di grazie e di miracoli.
Oltre all’opera religiosa fu rilevante quella sociale. Nel 1887 costruì infatti l’Orfanotrofio femminile e nel 1891 l’Ospizio per i figli dei carcerati (“orfani della legge” erano definiti i figli dei carcerati, degli ergastolani, dei delinquenti), sfidando le teorie della scuola positivista e proponendo una rivisitazione degli studi scientifici del positivismo sull’uomo, per verificare, con l’impiego di scritti e concreta sperimentazione, privilegiando gli elementi morali e religiosi, la possibilità di valorizzare gli aspetti positivi, onde conseguire la risocializzazione dei deviati, fondamento della antropologia criminale.
Gli studi classi nel Reale Collegio di Francavilla Fontana
Gli studi classici e la erudizione latina affinarono il suo pensiero e il suo stile; dal 1846 al 1858 studiò nel Reale Collegio Ferdinando di Francavilla Fontana diretto dai Padri Scolopi; invece di andare all’università di Napoli, sconvolta dalle agitazioni antiborboniche, ispirato dal secondo marito della madre, l’Avvocato Giovanni Campi di Mesagne, iniziò privatamente gli studi del diritto a Lecce: dopo l’annessione del Regno di Napoli all’Italia fu promulgata la Legge Casati che non riconosceva l’insegnamento privato; nel 1853 si trasferì quindi a Napoli per completare gli studi giuridici, inserendosi tra docenti e colleghi con il suo carattere espansivo e conseguendo nell’Università di Napoli la laurea il 12 dicembre1864.
Gli incontri con ambienti anticlericali e il naturalismo scientifico diffuso negli ambienti universitari lo deviarono verso lo spiritismo allontanandolo dal cristianesimo, per poi riconvertirsi a seguito dell’incontro con il conterraneo prof, Vincenzo Pepe e con il confessore Padre Alberto Radente, trasformandosi, nella definizione di Papa Benedetto XVI, come San Paolo da persecutore ad apostolo.
Rientrato a Latiano svolse opere di generosità devolvendo l’eredità paterna in aiuti a persone indigenti e in attività benefiche e filantropiche; il 15 aprile 1866 inaugurò un Asilo di Infanzia.
Iniziò quindi la sua breve e brillante carriera di Avvocato, componendo diritto ed etica, cogliendo a Lecce i suoi primi successi di penalista, grazie anche alla sua eloquenza suadente e penetrante, e lavorando anche con lo zio Avv. Luciano Luparelli.
A 28 anni l’abbandono della toga per la missione apostolare
Tornato a Napoli occasionalmente, fu ispirato da Padre Ribera a dedicare la sua vita di giovane Avvocato a Dio e all’apostolato; all’età di ventotto anni abbandonò la toga per abbracciare una vita di apostolato cristiano, avvalendosi della sua formazione professionale-morale, ponendosi di fronte alle condizioni di miseria di alcuni strati popolari non con umanitarismo e filantropismo, ma con espressione e manifestazione di spirito di giustizia e di carità.
A Pompei si recò su incarico della Contessa Marianna Farnararo, presentatagli da Giuseppina Volpicelli, cognata del Marchese Imperiali, pugliese anche lei (era nata a Monopoli il 12 dicembre1836), vedova De Fusco all’età di 27 anni, con cinque figli – con la quale per evitare maldicenze, su consiglio di Papa Leone XIII ー contrasse matrimonio canonico l’1 aprile 1885 – per gestire le sue proprietà, incontrando una realtà di miseria e ignoranza, ove iniziò a propagare il Rosario, ponendo le basi per la diffusione del culto della Madonna di Pompei.
L’opera meritoria nel campo sperimentale e sociale, che onora la storia della categoria forense, fu, con il sostegno di Papa Leone XIII e il generoso aiuto di gente ricca e povera, di politici, di militari, di pubblici funzionari e operai, religiosi, e finanche poveri condannati, l’istituzione oltre a un Orfanotrofio, di un Ospizio, che divenne accogliente luogo per attività lavorative, musicali e ginniche, che ospitava i figli dei carcerati (il cui Regolamento fu steso insieme all’Avvocato penalista e sindaco di Napoli Nicola Amore) osteggiata dalla scienza imperante e dalla stampa, qualificata ciarlatanesimo a fini speculativi all’ombra del Santuario, che lo definì “un tale togatulus”, un impostore affaccendato a trarre denaro da idee meschine all’ombra della Madonna di Pompei; per i più benevoli la Valle di Pompei sarebbe diventata un vivaio di delinquenti, un covo di belve.
Si scatenò contro Bartolo Longo una lotta di potere economico che mirava a estrometterlo dalla gestione degli Istituti; a Papa Pio X era stato dipinto come uno degli avvocati più imbroglioni d’Italia e, come fu scritto in occasione della presentazione dell’uomo prossimo a essere dichiarato beato su “La Civiltà Cattolica” del 18 ottobre 1980, fu chiesta la sua scomunica perchè accusato da persone successivamente screditate, tra i quali un frate, che poi fu arrestato per abusi e da altro soggetto poi divenuto eretico.
L’affermazione dell’umanità sulle “sentenze” stabilite dagli aspetti estetici
Secondo la scuola di antropologia criminale di Cesare Lombroso la trasmissione della tendenza al crimine si concentrava nella espressione “figli di ergastolani, predestinati ergastolani”, non essendovi nulla da fare per l’educazione dei figli di delinquenti.
Cesare Lombroso allo studio del delitto aggiunse quello del delinquente affermando la corrispondenza tra fisico e morale, assegnando all’uomo vizioso, immorale, delinquente i caratteri fisici e psichici, esagerati fino alla mostruosità, che nella estetica e nell’etica di un dato popolo in un dato momento contrassegnavano la bruttezza, e adottando il sistema di congetturare dai lineamenti del volto e da altri segni caratteristici della persona, quali la fisionomia la configurazione delle parti ossee del cranio, cui si pretese far corrispondere le singole parti del cervello, e altri segni degenerativi bitorzoli frontali, asimmetrie, ampiezza e strettezza della fronte, conformazione del naso e delle orecchie, atti a distinguere l’uomo delinquente dall’onesto o normale, l’andamento interno dell’animo, le naturali attitudini, l’indole, le inclinazioni, le passioni, le virtù, i vizi, fino al punto che tra più sospettati il maggiore indiziato era quello più brutto; oltre al rapporto tra fisico e morale sosteneva la correlazione tra organi e funzioni e tra cervello, intelligenza e moralità; nel pensiero, divulgato nell’Uomo Delinquente, del delinquente per costituzione rapportava l’intelligenza e i sentimenti alla forma del cranio.
Lo studio della personalità del detenuto fu proseguita secondo più moderni principi di adeguatezza, di umanità e di finalità delle pene, dal Prof. Benigno Di Tullio, Avvocato e Medico, Professore di Antropologia Criminale nell’Università di Roma, che nei primi anni del decennio del 1960 teneva lezioni, da me frequentate, presso il Carcere di Rebibbia, in Roma, sito alla via Bartolo Longo (l’intestazione della via è precedente alla sua beatificazione di oltre venti anni).
Come svolgimento ulteriore della scienza criminale del Lombroso, l’esponente della scuola criminale positiva Enrico Ferri, nella espansione del metodo positivo ad ogni ramo dello scibile umano, riteneva che il reato è un ente di fatto, una azione da studiare come azione umana, come fenomeno naturale e sociale, in contrapposizione alla scuola classica o idealista di diritto penale propugnata da Carrara, secondo la quale il delitto è un ente giuridico la cui essenzialità consiste nella violazione di un diritto che è congenito all’uomo perchè dato da Dio al momento della sua creazione; come osservò nel Trattato di Sociologia Criminale pubblicato in tre successive edizioni dal 1881 al 1891, pur rilevando la eccessiva prevalenza attribuita da Lombroso ai dati craniologici e antropometrici e pur aprendo a nuovi studi criminologici sugli autori di delitti, nell’indicare che lo studio della scuola positiva curava non già solo il delitto ma il delinquente, con un metodo scientifico nello studio della patologia sociale criminosa non astratto ma costruito sull’osservazione positiva delle sue condizioni organiche, antropologiche e psichiche, delle influenze ereditarie, delle condizioni dell’ambiente fisico e sociale, precedenti indissolubili della persona, riferiva che le osservazioni antropologiche, psicologiche e statistiche avevano posto in luce che, sotto qualsiasi regime penitenziario, vi sono sempre dei tipi di delinquenti per i quali l’emenda è impossibile o estremamente difficile e instabile, perchè costituenti una varietà del genere umano, dominati da un’anormale costituzione organica o psichica, ai quali non ripugna il delitto che costituisce l’esercizio di un diritto o al più una azione indifferente senza provare alcun pentimento, essendo pronti a praticarlo nuovamente appena espiata la pena costituendo il carcere solo un pericolo del mestiere.
La lotta di Bartolo Longo al degrado sociale postunitario
Bartolo Longo si rivolse alla classe più abbandonata dei fanciulli (che la scienza ufficiale distingueva in nati delinquenti e nati onesti), i figli dei carcerati e dei forzati che rivedranno i loro figli se non quando li raggiungeranno a loro volta nelle prigioni per effetto dei propri delitti: i figli dei carcerati, condannati dalla nascita a battere la via del crimine, non godevano neppure dei benefici degli orfani perchè non lo erano, ed erano costretti a portare il marchio dell’infamia; raccolse così, come egli stesso racconta “…il grido represso che da tanti anni racchiudeva l’eco di tanti drammi ignorati dalla infanzia derelitta, di tanto inenarrabili sventure, di tanti clamori di misere madri e padri sciagurati che, dal fondo delle galere, dal fondo delle prigioni, stendevano le scarne braccia, facendo uscire da quei buchi tenebrosi voci lamentevoli di pietà imploranti soccorso per l’infelice loro prole, innocente delle loro colpe…”.
Gli sconvolgimenti degli assetti politici e la miseria imperante subito dopo l’Unità d’Italia, le epidemie diffuse avevano determinato un degrado sociale: Bartolo Longo avvertì il dramma esistenziale dei derelitti; un Magistrato dell’epoca nelle sue memorie ricordava di un imputato che si raccomandò al Pretore di avere un periodo più lungo di carcerazione per assicurarsi il pane per qualche giorno in più.
Il progetto “Lavoro e preghiera” un manifesto giuridico ed etico
La scommessa di Bartolo Longo fu vinta con il criterio del lavoro e della preghiera, facendone una dimensione sociale, colmando il distacco della società degli uomini liberi dal mondo delle famiglie dei carcerati, vincendo la indifferenza e la diffidenza, contrapponendo alla scienza la giustizia e la carità, contro lo scetticismo della scuola positivista (che accusò di falso i suoi risultati sui figli di condannati per omicidi) e scardinando e rivoluzionando i principi disumani della scienza antropologica criminale sulla trasmissione della tendenza al crimine, con il finale consenso di Magistrati, Direttori Carcerari e detenuti-genitori, scrittori, filosofi e quindi di studiosi di scienze penali in Italia e all’Estero sulla constatazione che giovani provenienti dall’Istituto si erano inseriti in officine, nel clero, nell’esercito, nelle bande militari e persino all’Estero; l’opera di Bartolo Longo non costituiva un semplice assistenzialismo, ma si manifestava come sfida, giuridica ed etica al secolo dello scientismo positivistico e della scienza criminologica ufficiale che irrideva polemicamente ai discorsi e alle iniziative di Bartolo Longo di tutela dei figli dei carcerati utilizzando pregiudizi che si ammantavano di scientificità.
Nell’arco di tre anni attuò il progetto “Lavoro e Preghiera” dimostrando che la rilevata tendenza al delitto di giovani ospitati già dichiarati “incorreggibili” era cambiata, suscitando la protesta della scuola positivista che riteneva antiscientifica la metodologia usata e non veritiera la modifica della tendenza e dell’istinto criminale – cui non poneva rimedio né l’attività lavorativa, inutile per la redenzione né la preghiera inefficace e dannosa su animi privi di senso morale – alla quale Bartolo Longo opponeva, nel rispetto della scienza, il campo e il criterio della carità, che genera fiducia, elevando il lavoro, quale mezzo educativo, a preghiera secondo il concetto espresso da San Tommaso D’Aquino, con l’aggiunta di attività ginniche, musicali e abitudini igieniche, favorite da una struttura ampia e pulita, attrezzata di strumenti di svago e lavoro che educavano al senso sociale i fanciulli sottratti alla strada e ad ambienti malsani.

I ragazzi, con l’ausilio di educatori, venivano sottoposti a studi della loro persona e dei precedenti familiari, delle tendenze in rapporto alle presunzioni della fenomenologia atavica, delle caratteristiche somatiche, per adeguare a ciascuno i metodi educativi occorrenti, consistenti in doveri generali di comportamento nelle azioni e nelle parole, in doveri disciplinari, in cura della persona, in regole di civiltà, in contegni corretti con compagni e educatori, nel contegno di gioco e nello studio, illuminati dalla luce della fede e il lavoro veniva raccolto e pubblicato: dal “covo di belve” uscirono operai, professionisti e anche sacerdoti e religiose.
Bartolo Longo ispirando le sue azioni a salvaguardia della spiritualità dell’anima ha svolto una elevata missione a tutela della libertà, su cui si fonda la moralità degli atti umani e la responsabilità delle azioni dell’uomo; la sua opera fu definita “non solo pietosa quanto altra mai, ma altrettanto sociale e senza misura civilizzatrice”.
La sfida vinta ma non ancora conclusa
Il messaggio di Bartolo Longo deve essere ancora in pieno accolto; già alla fine del 1800 era stato osservato come i sistemi carcerari si erano mostrati inferiori così alla scopo prefisso che all’utile sperato e si richiedeva di provvedere con urgenza a quella che veniva definita “bancarotta dell’odierno sistema penale”; nella attuale epoca a distanza di circa un secolo e mezzo, la civiltà esige un mutamento e una sostanziale rideterminazione dei criteri ispiratori dei fondamenti giuridici e culturali e dei principi punitivi e una filosofia etica della pena, con l’adozione di interventi di istruzione e occupazione, di metodi alternativi alle misure detentive, non soltanto per una attenzione umanitaria e per una utilità sociale, ma per un problema di legalità violata determinata da sovraffollamento, mancanza di spazi vitali, promiscuità rispetto alla posizione giuridica e alla tipologia dei reati, limitazione di comunicazioni con l’esterno, condizioni carcerarie che tolgono la dignità e coinvolgono i familiari dei detenuti, difficoltà di procedere alla rieducazione alla legalità e alla osservazione della personalità, inerzia per venti ore al giorno, che producono rimozione del senso di colpa, incomprensione della finalità della pena e deresponsabilizzazione.
Bartolo Longo cessò di vivere, assistito dall’amico medico Giuseppe Moscati – santo della scienza medica intesa come missione e opera di carità e anticipatore dell’intelligenza laica del cristiano moderno – il 5 ottobre 1926 a Pompei dove era ritornato, osannato e acclamato, il 23 febbraio 1925 a seguito di una parentesi di vita in Latiano dove era rientrato per evitare conflitti con gli eredi della Contessa, deceduta il 9 febbraio 1924. Le sue spoglie mortali sono nella cripta del Santuario di Pompei.
Augusto Conte
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L’autore dell’articolo

Augusto Conte, di Ceglie Messapica, avvocato e saggista di Storia del Diritto, di Ordinamento e Deontologia forense, di Retorica forense. Dal 2001 al 2011 è stato presidente dell’Ordine degli Avvocati della provincia di Brindisi; Toga d’oro 2015 per il mezzo secolo di professione. Autore di numerosi libri, per conto della “Edizioni Grifo” di Lecce ha pubblicato quindici volumi su materie legate alla Giustizia. Ha redatto la storia della Camera Penale di Brindisi, per il sito Internet della Camera Penale, e la storia dell’Ordine Forense di Brindisi, per il sito Internet del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi. Da oltre venti anni collabora con la Fondazione Bartolo Longo di Latiano.